written by PostLibyan
The Great Saunites are a duo from Italy who make odd music that is a
kind of jazzy and kind of math-rock-ish at times. And you know how odd
Italian bands like EvilSponge, so of course they sent us a promo.
And it's really pretty good. It is a little weird, but it takes
classic math rock (think early Rodan), Krautrock (especially Can), and
late 60s psychedelic and mixes it all together. I guess the closest
thing that compares is Tortoise, but The Great Saunites are far more spastic.
The thing is, the band is a duo, and i am not sure how that works out
musically. There is prominent drumming, so someone is doing that.
Then there is guitarwork, spastic and grinding along, so someone is
doing that. Then most of the songs also layer in organ drones. Who
plays the organ? Is that sequenced? Is the drummer playing one hand on
the drums and one on the organ? I can't visualize this... But i guess
i am thinking of a live performance. In the studio, sure they can
record one part then layer in the other.
Anyway, i find that a little odd.
There are five songs in about 38 minutes here. Let's examine them.
The whole release starts with an awesome guitar riff in Cassandra.
The guitar is slightly distorted and bluesy, like something Tommy
Iommi would have played on the first couple of Black Sabbath Records.
The guitar positively squeals its way through this, backed by a steady
drum beat and a subtle organ drone. The overall effect is of some
acid-addled late 60s freakout, man!
A sample of chanting in a foreign language kicks of Medjugorje.
Shortly a distorted guitar riff is layered over, grinding under some
fuzzy distortion. The drums kick in, spastic, feverish, and the organ
drone is back. The band jams on this for eight minutes, guitar and
organ and percussion going all over the place.
Bottles & Ornaments starts with a some kind of distorted
reversed voice bit, organ drone, and the guitar playing long bluesy
notes like something from early Pink Floyd. Drumming thumps in and out
of this mind trip of a tune, which kind of floats around for just over
three and a half minutes. The Great Saunites follow up with another
short tune, Ocean Raves, this one just an acoustic guitar playing away, strummed and plinked.
And then we have the album’s closer, The Ivy which clocks in at 19:51. It is not the noodley 20 minute type of song that Landing
do, but 20 minutes of steady progression, the various parts looping
around each other, drums, guitar, keyboards all circling. It's pretty a
pretty fascinating jam. After 10 minutes, a voice comes in, and the
song becomes vaguely gothy, with really intense drumming! And then it
goes through a period where the keys are doing improv jazz, just
seemingly random noise stuff, and then it all wraps up with some Pink
Floyd-ish strumming similar to the previous tune. A pretty fascinating
progression, and the Great Saunites really make it work.
Overall, this is pretty interesting. It is kind of mathy, kind of
psychedelic, and kind of jazzy all at the same time. It will not appeal
to everyone, but it is pretty diffferent. I would say that i haven't
heard anything exactly like this before, and that is saying something.
They manage to pull it off too.
http://www.evilsponge.org/albums/GreatSaunites__Ivy.htm
Informazioni personali
mercoledì 28 agosto 2013
domenica 11 agosto 2013
Intervista TGS per ONDAROCK
di Michele Saran
Uno scambio di
chiacchiere con Marcello e Angelo, il duo di cui si compone la realtà
Great Saunites, alla scoperta della loro nascita, del loro variegato
modo di comporre, della loro forma-suite, della tarda psichedelia
storica. E della nuova distribuzione digitale.
Ciao ragazzi e benvenuti nella nostra webzine. Quando comincia di preciso la vostra storia?
Marcello: The Great Saunites nasce nel 2008, credo fosse settembre di quell’anno.
Come vi siete incontrati e quali presupposti - se ve ne sono stati - avete posto prima di iniziare a suonare e registrare?
M.: In realtà avevamo già suonato insieme, nei Linda Gruber. La storia è abbastanza un classico, eravamo entrambi sfiduciati per come si erano concluse le rispettive precedenti esperienze musicali, diciamo che in quel momento è nata l’idea di tentare qualcosa di diverso e di metterci in gioco. Alla soglia dei 30 anni ci sentivamo più giovani di quando ne avevamo 20 e di “mettere la testa a posto” non se ne parlava proprio. Presupposti? Serietà nel portare avanti il progetto e nessuna velleità personale, si può dire che abbiamo sposato il concetto di gruppo nella più forte accezione del termine.
Parlami, più in specifico, di come è nato il vostro interplay.
M.: Affinità musicali ce ne sono sempre state, come gruppo la nostra storia è inevitabilmente segnata dalla scelta di Layola (nick di Angelo Bignamini, ndr), da sempre chitarrista, di passare alla batteria. L’interazione musicale che ne è derivata è stata del tutto originale, frutto di jam in sala prove caratterizzate da un entusiasmo quasi primitivo.
L’umore psichedelico che vi contraddistingue, a tratti granitico e compatto e a tratti invece molto variabile e decostruito, si è sviluppato spontaneamente dalle vostre interazioni o l’avete pianificato in origine?
M.: Pianificato è una parola grossa, posso però dirti con certezza che The Great Saunites nella nostra testa è sempre stato un progetto non immediato, abbiamo sempre cercato di creare qualcosa che potesse arrivare all’ascoltatore in maniera non lineare, che richiedesse uno sforzo. Da questo punto di vista posso affermare che abbiamo pianificato un percorso che può rientrare nel concetto di psichedelia, il resto l’ha fatto spontaneamente l’alchimia che si è creata tra il basso e la batteria.
Hai citato prima “Layola”: nel vostro secondo disco “Delay Jesus” vi ribattezzate, o meglio nascondete le vostre identità in nick come Leonard Kandur Layola e Atros Al D. Come mai queste scelte? Cosa vogliono dire?
M.: In tutti i nostri dischi utilizziamo quei due nick ma risulterei bugiardo se ti dicessi che alla base ci sta un ragionamento sopraffino. In realtà per noi è una sorta di consuetudine un po’ grottesca e forse deriva dal fatto che vedere scritti i nostri nomi reali rischierebbe di darci un tono e un’identità che sicuramente sentiamo di non meritare.
La vostra è una propensione alle tracce lunghe, anche se non mancano esperimenti più brevi. E’ dunque questo il vostro format ideale?
M.: Abbiamo composto diversi brani di lunga durata, in particolare la nostra è stata una sorta di trilogia della suite. “Isaiah”, “Delay Jesus ‘68” e “The Ivy” sono tre dei brani di cui andiamo più fieri e che pensiamo ci rappresentino appieno, nonostante abbiano avuto una gestazione del tutto differente l’uno dall’altro. Più in generale il brano lungo ci consente di indugiare su quel senso di “straniamento”, a noi tanto caro, che ci porta a variare il mood del pezzo in maniera totale lungo tutta la sua durata, questo senza dover rinunciare alla ripetizione ipnotica del riff e del ritmo, che serve a noi per provare piacere. Ma anche all’ascoltatore per decidere se andarsene o lasciarsi trasportare insieme a noi.
Proprio la lunga “The Ivy”, la suite che dà il titolo al vostro ultimo disco, è il vostro apice, anche come durata. Come l’avete concepita? Come avete disegnato i suoi tratti tanto complessi quanto incalzanti?
M.: Anzitutto grazie, anche noi pensiamo possa essere un piccolo punto di arrivo per la band. “The Ivy” è un brano nel quale confluisce tutta la nostra musica e la nostra passione musicale. Per quanto riguarda il concepimento, tutto è nato dall’idea del collage sonoro…siamo entrambi grandi fan dei Faust e con “The Ivy” volevamo andare in quella direzione: una commistione di riff granitici e parti più free form. Questo brano inoltre segna per noi un ritorno massiccio alla fase di arrangiamento in studio, aspetto che avevamo un po’ accantonato dopo l’esperimento fatto con il brano “Isaiah” dal nostro primo album.
Dal primo “TGS”, interamente autoprodotto, colpisce appunto - tra le altre cose - il lungo, dissonante intermezzo di “Isaiah”. Da dove vi è venuto?
M.: E’ stato interamente improvvisato in studio su una traccia base di basso che doveva essere nelle nostre intenzioni una divagazione un po’ rumoristica e sfilacciata. La chitarra dal mood raga indiano e le tastiere sono state totalmente improvvisate sul momento e hanno inconsapevolmente dato una direzione al brano opposta a quella che avevamo in testa. Credo che non riusciremo mai a rifare “Isaiah” com’è venuta in quella registrazione. Sicuramente è il brano migliore che abbiamo mai composto.
In “Delay Jesus” avete lasciato perdere l’apporto vocale. Lo considerate un di più non così essenziale o semplicemente il vostro suono ha intrapreso direzioni differenti con quel disco?
M.: L'apporto vocale non è stato assolutamente accantonato se consideri che in “The Ivy” ci sono dei brevi intermezzi e anche nello split con la Lucifer Big Band (2012, ndr) c’è un brano, “Black City”, caratterizzato da un cantato. Per noi la voce può essere tanto caratteristica quanto gli strumenti, ma deve convincerci appieno e soprattutto essere spontanea, in questo senso l’esempio lampante di ciò che più ci ha soddisfatti è stata la collaborazione con Welles (il nick del vocalist del disco di debutto) sul nostro primo album “TGS”.
In “Delay Jesus”, ma ancor meglio in “The Ivy” compare un brano lungo che occupa un’intera facciata. State proseguendo il modus operandi classico della tarda psichedelia che abbiamo già citato, ma anche e soprattutto del periodo d’oro del rock progressivo. Come vi ponete nei confronti del prog?
M.: In realtà nell’ultimo periodo non stiamo ascoltando tantissimo prog e forse non lo abbiamo mai fatto. Siamo grandi fan dei King Crimson ma forse i gruppi a cui ci piace far riferimento in quell’ambito sono quelli nostrani, cito gli Area, il Balletto di Bronzo, il Banco del Mutuo Soccorso, gli Osanna etc..
Angelo, i tuoi progetti solisti: Billy Torello e specialmente Lucifer Big Band. Pensi che i Great Saunites li influenzino in qualche modo? O forse sono proprio una sintesi di questi tuoi progetti solisti?
Angelo: Non credo esista un filo conduttore fra Great Saunites e i miei altri progetti musicali. Quando sono Billy Torello esprimo un legame forte con un altro strumento che non è la batteria, mentre la Lucifer Big Band è un progetto d’improvvisazione elettronica che ha poco in comune con le sonorità dei Saunites se non per una certa influenza kraut compenetrante in entrambe le band. Mi piace pensare a tre individui diversi scaturiti da un’unica complessa personalità.
In tutti e tre gli album il vostro suono è delineato da basso e batteria, anche se non mancano di certo nuovi suoni (acustici piuttosto che pienamente elettronici). Avete mai pensato di allargare ad altri musicisti la vostra formazione?
Marcello: Assolutamente ci abbiamo pensato, però finora è sempre prevalsa l’idea che la formazione a due fosse perfetta. La nostra intenzione è di mantenere il basso e la batteria preponderanti nei Saunites, ma un terzo elemento potrebbe indubbiamente aiutarci a sviluppare certe idee che abbiamo avuto in studio, e che per forza di cose abbiamo potuto solo in parte riprendere dal vivo. In questo senso l’uso di loop e audio samples ci è stato di grosso aiuto finora.
La nuova distribuzione della musica via Bandcamp. Praticamente la vostra intera discografia è disponibile via download digitale (ma “The Ivy” è stato edito prima di tutto in un ottimo vinile, quindi non rinnegate di certo le origini della riproduzione fonografica). E’ una sorta di atto di piena fiducia verso la distribuzione del futuro?
M.: Hai detto bene, tutti i nostri album sono disponibili via download. Non rinneghiamo di certo il supporto musicale ma nello stesso tempo siamo favorevoli a ogni forma di distribuzione alternativa della musica, purché ciò consenta alle band e alle etichette di veder ripagati i propri sforzi, che non sono mai marginali.
Cerchiamo di trovare una morale della favola. Attraverso un patchwork di stili del passato e una rivivificazione della psichedelia, la vostra estetica è piuttosto di confine. Un confine non solo stilistico ma anche - coerentemente - di stilizzazione ed essenzialità di suono. Ti ci ritrovi?
M.: Direi di si! L’aspetto minimale e il territorio di confine su cui si staglia la nostra musica sono innegabili. Posto che credo sia impossibile creare qualcosa che si possa definire nuovo in ambito musicale, il tentativo di riproporre in maniera personale un qualcosa che inevitabilmente si è assimilato con ripetuti e appassionati ascolti, è ciò che di più dignitoso un musicista può ambire a realizzare.
Un grosso grazie da parte della redazione, a risentirci!
http://www.ondarock.it/interviste/greatsaunites.htm
Ciao ragazzi e benvenuti nella nostra webzine. Quando comincia di preciso la vostra storia?
Marcello: The Great Saunites nasce nel 2008, credo fosse settembre di quell’anno.
Come vi siete incontrati e quali presupposti - se ve ne sono stati - avete posto prima di iniziare a suonare e registrare?
M.: In realtà avevamo già suonato insieme, nei Linda Gruber. La storia è abbastanza un classico, eravamo entrambi sfiduciati per come si erano concluse le rispettive precedenti esperienze musicali, diciamo che in quel momento è nata l’idea di tentare qualcosa di diverso e di metterci in gioco. Alla soglia dei 30 anni ci sentivamo più giovani di quando ne avevamo 20 e di “mettere la testa a posto” non se ne parlava proprio. Presupposti? Serietà nel portare avanti il progetto e nessuna velleità personale, si può dire che abbiamo sposato il concetto di gruppo nella più forte accezione del termine.
Parlami, più in specifico, di come è nato il vostro interplay.
M.: Affinità musicali ce ne sono sempre state, come gruppo la nostra storia è inevitabilmente segnata dalla scelta di Layola (nick di Angelo Bignamini, ndr), da sempre chitarrista, di passare alla batteria. L’interazione musicale che ne è derivata è stata del tutto originale, frutto di jam in sala prove caratterizzate da un entusiasmo quasi primitivo.
L’umore psichedelico che vi contraddistingue, a tratti granitico e compatto e a tratti invece molto variabile e decostruito, si è sviluppato spontaneamente dalle vostre interazioni o l’avete pianificato in origine?
M.: Pianificato è una parola grossa, posso però dirti con certezza che The Great Saunites nella nostra testa è sempre stato un progetto non immediato, abbiamo sempre cercato di creare qualcosa che potesse arrivare all’ascoltatore in maniera non lineare, che richiedesse uno sforzo. Da questo punto di vista posso affermare che abbiamo pianificato un percorso che può rientrare nel concetto di psichedelia, il resto l’ha fatto spontaneamente l’alchimia che si è creata tra il basso e la batteria.
Hai citato prima “Layola”: nel vostro secondo disco “Delay Jesus” vi ribattezzate, o meglio nascondete le vostre identità in nick come Leonard Kandur Layola e Atros Al D. Come mai queste scelte? Cosa vogliono dire?
M.: In tutti i nostri dischi utilizziamo quei due nick ma risulterei bugiardo se ti dicessi che alla base ci sta un ragionamento sopraffino. In realtà per noi è una sorta di consuetudine un po’ grottesca e forse deriva dal fatto che vedere scritti i nostri nomi reali rischierebbe di darci un tono e un’identità che sicuramente sentiamo di non meritare.
La vostra è una propensione alle tracce lunghe, anche se non mancano esperimenti più brevi. E’ dunque questo il vostro format ideale?
M.: Abbiamo composto diversi brani di lunga durata, in particolare la nostra è stata una sorta di trilogia della suite. “Isaiah”, “Delay Jesus ‘68” e “The Ivy” sono tre dei brani di cui andiamo più fieri e che pensiamo ci rappresentino appieno, nonostante abbiano avuto una gestazione del tutto differente l’uno dall’altro. Più in generale il brano lungo ci consente di indugiare su quel senso di “straniamento”, a noi tanto caro, che ci porta a variare il mood del pezzo in maniera totale lungo tutta la sua durata, questo senza dover rinunciare alla ripetizione ipnotica del riff e del ritmo, che serve a noi per provare piacere. Ma anche all’ascoltatore per decidere se andarsene o lasciarsi trasportare insieme a noi.
Proprio la lunga “The Ivy”, la suite che dà il titolo al vostro ultimo disco, è il vostro apice, anche come durata. Come l’avete concepita? Come avete disegnato i suoi tratti tanto complessi quanto incalzanti?
M.: Anzitutto grazie, anche noi pensiamo possa essere un piccolo punto di arrivo per la band. “The Ivy” è un brano nel quale confluisce tutta la nostra musica e la nostra passione musicale. Per quanto riguarda il concepimento, tutto è nato dall’idea del collage sonoro…siamo entrambi grandi fan dei Faust e con “The Ivy” volevamo andare in quella direzione: una commistione di riff granitici e parti più free form. Questo brano inoltre segna per noi un ritorno massiccio alla fase di arrangiamento in studio, aspetto che avevamo un po’ accantonato dopo l’esperimento fatto con il brano “Isaiah” dal nostro primo album.
Dal primo “TGS”, interamente autoprodotto, colpisce appunto - tra le altre cose - il lungo, dissonante intermezzo di “Isaiah”. Da dove vi è venuto?
M.: E’ stato interamente improvvisato in studio su una traccia base di basso che doveva essere nelle nostre intenzioni una divagazione un po’ rumoristica e sfilacciata. La chitarra dal mood raga indiano e le tastiere sono state totalmente improvvisate sul momento e hanno inconsapevolmente dato una direzione al brano opposta a quella che avevamo in testa. Credo che non riusciremo mai a rifare “Isaiah” com’è venuta in quella registrazione. Sicuramente è il brano migliore che abbiamo mai composto.
In “Delay Jesus” avete lasciato perdere l’apporto vocale. Lo considerate un di più non così essenziale o semplicemente il vostro suono ha intrapreso direzioni differenti con quel disco?
M.: L'apporto vocale non è stato assolutamente accantonato se consideri che in “The Ivy” ci sono dei brevi intermezzi e anche nello split con la Lucifer Big Band (2012, ndr) c’è un brano, “Black City”, caratterizzato da un cantato. Per noi la voce può essere tanto caratteristica quanto gli strumenti, ma deve convincerci appieno e soprattutto essere spontanea, in questo senso l’esempio lampante di ciò che più ci ha soddisfatti è stata la collaborazione con Welles (il nick del vocalist del disco di debutto) sul nostro primo album “TGS”.
In “Delay Jesus”, ma ancor meglio in “The Ivy” compare un brano lungo che occupa un’intera facciata. State proseguendo il modus operandi classico della tarda psichedelia che abbiamo già citato, ma anche e soprattutto del periodo d’oro del rock progressivo. Come vi ponete nei confronti del prog?
M.: In realtà nell’ultimo periodo non stiamo ascoltando tantissimo prog e forse non lo abbiamo mai fatto. Siamo grandi fan dei King Crimson ma forse i gruppi a cui ci piace far riferimento in quell’ambito sono quelli nostrani, cito gli Area, il Balletto di Bronzo, il Banco del Mutuo Soccorso, gli Osanna etc..
Angelo, i tuoi progetti solisti: Billy Torello e specialmente Lucifer Big Band. Pensi che i Great Saunites li influenzino in qualche modo? O forse sono proprio una sintesi di questi tuoi progetti solisti?
Angelo: Non credo esista un filo conduttore fra Great Saunites e i miei altri progetti musicali. Quando sono Billy Torello esprimo un legame forte con un altro strumento che non è la batteria, mentre la Lucifer Big Band è un progetto d’improvvisazione elettronica che ha poco in comune con le sonorità dei Saunites se non per una certa influenza kraut compenetrante in entrambe le band. Mi piace pensare a tre individui diversi scaturiti da un’unica complessa personalità.
In tutti e tre gli album il vostro suono è delineato da basso e batteria, anche se non mancano di certo nuovi suoni (acustici piuttosto che pienamente elettronici). Avete mai pensato di allargare ad altri musicisti la vostra formazione?
Marcello: Assolutamente ci abbiamo pensato, però finora è sempre prevalsa l’idea che la formazione a due fosse perfetta. La nostra intenzione è di mantenere il basso e la batteria preponderanti nei Saunites, ma un terzo elemento potrebbe indubbiamente aiutarci a sviluppare certe idee che abbiamo avuto in studio, e che per forza di cose abbiamo potuto solo in parte riprendere dal vivo. In questo senso l’uso di loop e audio samples ci è stato di grosso aiuto finora.
La nuova distribuzione della musica via Bandcamp. Praticamente la vostra intera discografia è disponibile via download digitale (ma “The Ivy” è stato edito prima di tutto in un ottimo vinile, quindi non rinnegate di certo le origini della riproduzione fonografica). E’ una sorta di atto di piena fiducia verso la distribuzione del futuro?
M.: Hai detto bene, tutti i nostri album sono disponibili via download. Non rinneghiamo di certo il supporto musicale ma nello stesso tempo siamo favorevoli a ogni forma di distribuzione alternativa della musica, purché ciò consenta alle band e alle etichette di veder ripagati i propri sforzi, che non sono mai marginali.
Cerchiamo di trovare una morale della favola. Attraverso un patchwork di stili del passato e una rivivificazione della psichedelia, la vostra estetica è piuttosto di confine. Un confine non solo stilistico ma anche - coerentemente - di stilizzazione ed essenzialità di suono. Ti ci ritrovi?
M.: Direi di si! L’aspetto minimale e il territorio di confine su cui si staglia la nostra musica sono innegabili. Posto che credo sia impossibile creare qualcosa che si possa definire nuovo in ambito musicale, il tentativo di riproporre in maniera personale un qualcosa che inevitabilmente si è assimilato con ripetuti e appassionati ascolti, è ciò che di più dignitoso un musicista può ambire a realizzare.
Un grosso grazie da parte della redazione, a risentirci!
http://www.ondarock.it/interviste/greatsaunites.htm
lunedì 5 agosto 2013
Recensione "The IvY" su FRITTOMISTO
a cura di Tonio Troiani
Con miserevole ritardo vorrei spendere qualche parola su The Ivy, disco del duo lodigiano The Great Saunites,
composto da Angelo Bignamini, aka Leonard Kandur Layola e Atros,
rispettivamente alla batteria e al basso, e prodotto da una folta
cordata di etichette (Bloody Sound Fucktory, HysM?, Lemming Records, Il Verso del Cinghiale Records, Neon Paralleli, Terracava, Villa Inferno Records).
La proposta del duo evita ampiamente la
stagnante moda matematizzante e nevrotica per inerpicarsi, invece, in un
percorso in cui la vena più mistica e sognate della psichedelia si
innerva su ritmiche serrate di chiara derivazione teutonica. Segno
inequivocabile è il basso liquido e, nel contempo, epico di Medjugorje supportato da un pattern dritto e schiacciasassi.
I bozzetti acustici ed ambientali di Bottles&Ornaments e Ocean Raves servono quasi a stemperare gli animi: un commiato e una preparazione al rituale di The Ivy,
lunga suite/improvvisazione a cui è dedicato il secondo lato del vinile
(che vi consiglio di comprare, o se vi capita di toccare, visto la cura
profusa nel packaging).
A questo punto, potrei dirvi molto
placidamente di ascoltare il Lato B del disco e, quindi, non perdere
tempo e forze nel descrivere quello che avviene nei quasi venti minuti
che compongono The Ivy. Tuttavia, c’è una vena “narrativa” che
permette di parlarne come di un racconto. Infatti, quello che la
caratterizza è la tensione cumulativa di eventi sonori, da una parte
ammantati di una componente cinematica (con alcuni riferimenti agli Earth
meno rarefatti), dall’altra di una sorprendente vivacità quasi dadaista
che mischia sapientemente derive rumoristiche e marce per organo e
percussioni (uno Zomes meno ieratico e più scanzonato, quasi un Wyatt ubriaco che cerca di suonare la prima sezione di Moon in June), sino al finale arido e polveroso consegnato ad atmosfere acustiche e accecanti.
Una prova interessante nella sua natura
doppia: con un occhio perennemente al passato, sorta di bignami sonoro, e
l’altro proiettato nel corpo della scena «occult» italiota,
sobillatrice – speriamo – di una nuova rinascita.
[Voto=> 7]
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