di Bob Accio
Prendo quest’oggetto, un CD, lo scarto e lo inietto nel lettore dello
stereo, scruto la copertina di questo UFO e … no, faccio diversamente,
prendo un mucchio di file posti sul pc, pospongo tutta la trafila
manuale, e diretto schiaccio il tastino play del lettore VCL.
Esamino il PDF, allegato al pacchetto zippato inviatomi via e-mail, e
cerco informazioni, foto, grafica, poi nel silenzio del mio office mi
abbandono di conseguenza sulla megapoltrona nera completamente rilassato
ad ascoltare le invettive sonore del duo The Great Saunites (TGS) from Lodi, attivissimi in questo ultimo decennio.
Intorno a me il bianco delle pareti, del mobilio, la smorzata lucentezza
della grigia giornata odierna, mi esulano da distrazioni. Presento
un’orda barbarica di libri, mi urlano, mi cercano con lo sguardo, sono
alle mie spalle, ne avverto il tentacolare e irrispettoso desiderio di
conquistarmi, di essere preferiti alla musica, giustappunto tiro la
lunga tenda beige sino a coprirli del tutto, il sipario funzionale, ‘do
not disturb’.
Chiudo le palpebre, è buio, vedo nero. Transita nel mio apparato
ricettivo la musica, essa agisce su di me operando un’algida metamorfosi
dell’umore, mi scompiglia i sentimenti, mi conduce per mano lungo posti
che ignoravo costringendomi a vedere quel che non si vede con gli
occhi.
Punto focale diventa quindi la concentrazione. Immagino il prestante duo
in studio di registrazione intento a trovare l’assetto congeniale onde
far quadrare nel miglior modo l’idea pensata per ciascun pezzo,
collegando i punti di concertazione, cucendoli insieme per originare un
PRODOTTO serio, deciso, che possegga forza impressiva. Ecco, ci sono,
finalmente sintonizzato sulla lunghezza d’onda del disco, “BROWN”!
Il risucchio del conato, l’angoscioso allarme antiaereo che risuona
senza promettere scampo, si spande soffocante, avvisa di un imminente
arrivo distruttivo che farà tabula rasa di ciò che risiede in terra:
quale orrenda visione desertica e sibillina!
Cancellato l’ovunque, e il novunque, ognuno sarà vittima degli eventi infausti.
L’intreccio del sustain ‘infinito’ del synth col corno mortuario,
sorretti entrambi dal basso incessante, scolpiscono il sound piovoso che
scava ampie pozzanghere nel terreno brullo; s’accentua la cupezza di
paesaggi scuri e i presagi strozzano le speranze; vive la certezza delle
pesantissime nubi che opprimono l’intorno scarno, deturpato, smisurato e
al contempo vicino.
Emerge un oratore filtrato dalla radio, quelle valvolari
esistenti al tempo del secondo conflitto mondiale, pare annunciare
guerra, o un accorato proclama, la fine.
Il percorso intricato di filo spinato dà moto ad una fissità di alti e
bassi rimanendo sul tema dello schema principale; affiancati da
drammatici sound fields, rumori sinistri, intimorisce il tremebondo,
efficace, lavoro dei tamburi. Nell’inalterato equilibrio s’introduce ad
arte una voce lirica femminile, ammalia e sembra confortare i morti nel
triste ma speranzoso trapasso: fa da contro campo il parlato
‘drag&drop’, oscuro ritaglio di un discorso microfonato (che poi
sostituirà il cantato); percettibilmente la palpitante linea di basso
subisce accenti e minime variazioni minacciose, mentre le trombe
sintetizzate si sbizzarriscono curando un assolo continuo sottotraccia
che sa di improvvisazione e meraviglia, oserei incuneare un’anima free jazz nelle doti musicali de The Great Saunites.
Il fluire della psichedelia dark incombe e ammanta il concept album
di tinte fosche, ricche di sfumature plumbee + hypno music, mandando in
sollucchero il pezzo, che nella sua lunghezza di quasi 15 minuti risulta
metodicamente carico di carisma e inchiodante nel suo esplorare terre
di confine. Era the first take: “Brown”.
Il seguente “Respect The Music” è un piccolo gioiellino,
su basso fisso e pulsante viene recitata una frase che assurge a mantra
sonoro. Il tastierino del pc nel suo pieno digitare impazzito è ottimo
elemento sonicamente inserito. Il discorso totale è influenzato dallo
splendido assolo, che appare distante, e dalle distorsioni a fascio di
luce che contrastano con un’anima spettrale, energetica e dura espressa
dalla chitarra. Il ricamo punteggiato decisamente space-kraut avvalora un’ottima invenzione (assolutamente apprezzabile anche il video).
Il terzo pezzo è “Ago”, una romanza pianistica sottomessa da fusi
elettronici amplificati. Qualcosa dei Floyd di “Ummagumma” si intravede,
interferiscono col pezzo suoni esterni, colpi ben integrati di tamburo,
qualche compressore svapora ad alta pressione dai condotti, rumori che
trainano verso gli Einstürzende Neubauten. L’atm pianistica comanda, una
tromba si solleva a mo’ di marcetta, l’aria vagamente cacofonica
avviluppa greve.
“Controfase”. La macchina da cucire non smette di pistonare –
prerogativa del basso -, si ripescano effetti suonati al contrario
(pregio dei revolveriani Beatles), eh, mica male! Pattern minori rendono
il brano pieno, contornato, sino all’enigmatico finale fatto di strani
colpi, battiti che culmineranno… nella ‘controfase’?
Siamo alla perla finale: 4:38 di durata per esprimere in concentrato i
tratti salienti di “Brown”. E’ questo il ‘Reprise’ e porta con sé un
odore tutto Brian Enoiano, suggerimento importato da “Music for
Airport”, e ne tratteggia l’appassionato epilogo. Un lungo applauso
viene concesso a termine dell’ascolto, meritatissimo.
La sequenza tennistica conclusiva potrebbe essere un rimando all’antonioniano ending di “Blow Up”? A voi la pallina.
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